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La pazzia di Re Elon: così Musk vuole privatizzare Tesla #prospettive

Lo scorso 7 agosto, con un tweet che ha spiazzato tutti, Elon Musk ha annunciato i suoi piani per la privatizzazione di Tesla. “Sto considerando l’ipotesi di privatizzare Tesla a 420$ [per azione]”, ha scritto il CEO nel suo intervento

La pazzia di Re Elon: così Musk vuole privatizzare Tesla #prospettive
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Andrea Nepori
Andrea Nepori
Pubblicato il 18 ago 2018

Lo scorso 7 agosto, con un tweet che ha spiazzato tutti, Elon Musk ha annunciato i suoi piani per la privatizzazione di Tesla.
Sto considerando l’ipotesi di privatizzare Tesla a 420$ [per azione]”, ha scritto il CEO nel suo intervento su Twitter, chiarendo inoltre che già avrebbe trovato i fondi necessari a condurre l’intera operazione. Circa un’ora e mezzo più tardi, un ulteriore chiarimento: “gli azionisti possono decidere di vendere a 420$ [per azione] oppure mantenere le proprie quote” e di fatto rimanere “shareholders” di una nuova Tesla privatizzata.

Quello di Musk, può sembrare un colpo di testa. Lo è stato, almeno nei modi con cui il CEO di Tesla ha deciso di condividere una mossa finanziaria delicata e complessa. E a giudicare dall'intervista pubblicata ieri dal New York Times, Elon non se la passa benissimo. È stressato da un anno di difficoltà e attacchi continui, ha spiegato, durante il quale è arrivato a lavorare fino a 120 ore a settimana (comprese tutte e 24 le ore del giorno del suo compleanno). Per dormire prende l'Ambien, un forte sonnifero, e secondo alcune fonti del quotidiano farebbe uso di droghe leggere a scopo ricreativo. Tuttavia le ragioni alla base dell’operazione non si possono derubricare a semplice delirio di un CEO al limite del burnout da superlavoro.

Lo scopo – ha scritto lo stesso Musk in un post di chiarimento sul blog aziendale – è creare il miglior ambiente possibile perché Tesla possa operare al meglio. Come azienda quotata in borsa siamo soggetti a variazioni sensibili del prezzo delle azioni che possono rappresentare una distrazione per tutti coloro che lavorano per Tesla e sono azionisti al tempo stesso. La natura di azienda quotata in borsa, inoltre, ci costringe a seguire il ciclo della dichiarazione dei risultati finanziari trimestrali, con la pressione di dover prendere decisioni buone per un dato trimestre, ma non necessariamente giuste nel lungo termine.

Infine, ha spiegato ancora Musk, le azioni di Tesla sono fra quelle preferite dagli short-seller, cioè coloro che – semplificando molto – scommettono sull’andamento negativo di un titolo borsistico. Una posizione scomoda che “rappresenta un incentivo per chi vuole attaccare l’azienda”. 

PARANOIA NECESSARIA

I toni dell’intervento lasciano trasparire quel velo di paranoia che già in passato Musk ha rivendicato come necessaria alla sopravvivenza dell’azienda. A giugno, dopo che un incendio ha rallentato la produzione in uno degli stabilimenti californiani di Tesla, il CEO aveva parlato apertamente di sabotaggio (da parte di un dipendente che non aveva avuto una promozione, però) e chiesto ai dipendenti di tenere gli occhi aperti: “c’è una lunga lista di organizzazioni che vorrebbero veder morire Tesla”, aveva scritto in un’email inviata a tutto il personale.

Oltre a citare ancora una volta gli “short seller di Wall Street, che hanno già perso miliardi e ne perderanno ancora”, Musk aveva fatto esplicito riferimento alle aziende del settore del petrolio e ai concorrenti che producono veicoli a benzina o diesel, per concludere con una domanda retorica: “Se sono così propensi a truffare sulle emissioni, magari sono capaci di giocare sporco anche in altre maniere?”.

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È chiaro che da giugno ad oggi Musk ha elucubrato a lungo su un piano per difendere Tesla da quelli che vede come attacchi inevitabili, finendo per convincersi che privatizzare l’azienda sia di fatto l’unico modo per proteggerla e continuare a innovare in un settore complesso e fitto di interessi incrociati. Su un piano puramente ideale, niente da obiettare: se qualcuno vuole speculare sulle azioni di Tesla, eliminare la quotazione pubblica della compagnia elimina anche il problema.

Fra i fattori che Musk sapientemente non cita fra le ragioni per una privatizzazione, però, ce ne sono alcuni difficilmente imputabili ai nemici di Tesla e della mobilità elettrica: gli incidenti degli automobilisti un po’ troppo fiduciosi nelle capacità dell’Autopilot a causa del marketing spregiudicato, ad esempio, o le difficoltà riscontrate dall’azienda nel garantire i livelli di produzione della nuova Model 3.

IL CASO DELL

Il “delisting” dal mercato azionario di una grande azienda quotata non è certo un’operazione senza precedenti. Uno dei casi di maggior successo nella storia recente è quello di Dell e risale al 2013. Michael Dell, fondatore e proprietario, e un singolo altro investitore (il fondo di investimento Silver Lake Partners), si ricomprarono per intero l’azienda con un esborso complessivo di 24,4 miliardi di dollari. Per una compagnia in difficoltà e assoggettata alle bizze degli investitori di maggioranza, fu una scelta azzeccatissima e necessaria per affrontare un piano di rilancio e risanamento che guardasse al lungo termine più che ai guadagni da ridistribuire nel breve agli azionisti.

Un’esperienza di successo che sembra offrire solide giustificazioni alla decisione di Musk. Tuttavia non si può ignorare che i due casi sono molto diversi. Almeno per due ragioni da non sottovalutare: il valore della compagnia e la natura eterogenea e complessa degli investitori.

PETRODOLLARI PER L’ELETTRICO

Con un calcolo basato sulla cifra indicata da Musk (420$ per azione, circa il 25% in più rispetto alla quotazione del titolo nel momento in cui scriviamo), la privatizzazione di Tesla costerebbe circa 70 miliardi di dollari, una cifra enorme.
Eppure Musk, nel tweet con cui annunciava l’intenzione di avviare le operazioni per il delisting dell’azienda, parlava di “funding secured”, lasciando intendere che i fondi per l’operazione già ci sono. Qui entrano in scena i sauditi. Per la precisione il ricchissimo fondo sovrano PIF (Public Investment Fund) che fa capo al Principe Mohammed bin Salman.

Il coinvolgimento dei Sauditi lo giustifica lo stesso Musk con un aggiornamento pubblicato pochi giorni fa sul blog ufficiale di Tesla:

“[Con i rappresentanti del PIF] ci siamo incontrati per la prima volta all’inizio del 2017, e [in quell’occasione] mi hanno espresso l’intenzione di [procedere con questa operazione] a causa della necessità di diversificare gli investimenti petroliferi. Successivamente ci sono stati altri incontri per reiterare l’interesse e l’intenzione a procedere con la privatizzazione.

Ovviamente il fondo sovrano saudita ha a disposizione capitali più che sufficienti a eseguire questo tipo di transazione”. In altre parole – non ci sfugge l’ironia – Musk ha ammesso che per privatizzare Tesla sarà fondamentale il contributo di uno stato che deve la sua enorme ricchezza al commercio del petrolio. A mo’ di acconto, se così lo vogliamo chiamare, i sauditi hanno già investito alcuni miliardi di dollari in Tesla acquistando direttamente azioni dell’azienda sul mercato secondario; ora detengono il 5% della compagnia.

Va specificato, però, che l’intenzione di Musk non è di concedere al PIF una posizione decisionale né di accentrare su di sé il potere come azionista di maggioranza. Il CEO detiene ad oggi il 20% dell’azienda e in un’eventuale operazione di privatizzazione le sue quote potrebbero rimanere immutate o variare di poco.

TUTTI ASSIEME PRIVATAMENTE

Le intenzioni di Musk sono altre: coinvolgere il più possibile gli investitori esistenti, che potranno scegliere se vendere le proprie quote o conservarle, di fatto trasformandosi in possessori di una fetta di proprietà della nuova Tesla privatizzata.
Un meccanismo che nei piani di Musk contribuirà ad abbassare sensibilmente il capitale necessario ben al di sotto dei 70 miliardi previsti sulla base della valutazione a 420$ per azione.

“La mia stima più ottimista, ad oggi, è che circa due terzi delle azioni possedute dagli azionisti attuali saranno conservate in caso di privatizzazione”.

Non è chiaro, però, su cosa siano basate le “stime” di Elon visto che, per sua stessa ammissione, le discussioni con gli altri grandi investitori di Tesla sono ancora in corso.

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Secondo alcuni esperti, però, il piano di Musk è fallato. Musk, spiega ad esempio la giornalista Linette Lopez su Business Insider, non ha alcun modo di sapere in anticipo chi, fra gli investitori, accetterà la sua proposta. Alcuni potrebbero per altro non essere in grado di accettarla per questioni contabili che impediscono loro di possedere quote di un’azienda privata.

Se poi Elon dovesse riuscire a coinvolgere un gran numero di investitori, gli scopi originali del piano di privatizzazione ne uscirebbero indeboliti: con più di 2000 investitori, anche un’azienda privata è costretta a pubblicare i propri risultati e accettare il conseguente scrutinio pubblico delle proprie finanze. L’unico vantaggio, in quel caso, è che risultati e analisi non influiscono sul prezzo delle azioni a Wall Street.

FUNDING SECURED?

Il “funding secured” del tweet di Musk sembra dunque pericolosamente precoce. Scrivo “pericolosamente” perché, se si dimostrerà che in realtà – come ammesso da Musk stesso – le discussioni per la conclusione dell’operazione sono ancora in corso, il suo tweet potrebbe essere interpretato come un tentativo di manipolare l’andamento delle quotazioni del titolo TSLA.

La Security and Exchange Commission (SEC), l’organismo statunitense di vigilanza sui mercati azionari, ha già inviato un atto di citazione, un’azione formale che solitamente precede l’apertura di una vera e propria inchiesta. Il rischio, appunto, è che Musk possa essere accusato di aver scientemente manipolato il mercato se verrà accertato che il “funding” era tutt’altro che “secured”, come Musk sembra in parte suggerire nelle sue stesse spiegazioni sui rapporti con il fondo saudita e sul piano di coinvolgimento degli altri azionisti nell’operazione di privatizzazione.

Dal canto suo Musk ha spiegato che quel tweet si era reso necessario perché “l’unico modo per condurre discussioni significative con i maggiori azionisti” era la totale trasparenza sull’intenzione di privatizzare Tesla. Non sarebbe stato giusto, ha aggiunto, condividere queste informazioni solo con loro, escludendo tutti gli altri. L’unica soluzione possibile consisteva dunque nel rendere pubblica la notizia in maniera ufficiale.

Vedremo se la SEC sarà convinta da questa – legittima – spiegazione. Anche qualora tutto dovesse filare liscio, il processo di privatizzazione dell’azienda richiederà comunque mesi di preparazione, che per il titolo – e gli investitori – potrebbero dimostrarsi abbastanza burrascosi. La decisione finale spetterà comunque agli azionisti, che si esprimeranno con un voto sulla base di un piano concreto che, a detta di Musk, includerà ogni dettaglio, inclusa “la natura dei fondi che verranno utilizzati per condurre l’operazione”. È un’altra delle grandi e rischiose scommesse su cui Re Elon, fin dai tempi di PayPal, ha costruito la sua carriera e il suo successo.

Se ci riuscirà, l’universo finanziario che oggi lo critica finirà inevitabilmente per lodarne il coraggio. Se fallirà, gli short-seller si sollazzeranno della sua sventura. Lui, l’uomo che è convinto di morire su Marte, come al solito non sembra preoccupato e rassicura tutti con toni militareschi e retorica da rivoluzionario:

Se il processo si concluderà nel modo che credo, Tesla rappresenterà un’enorme opportunità per tutti noi. Vada come vada, il futuro è splendente e continueremo a combattere per portare a compimento la nostra missione.

Andrea Nepori è un giornalista freelance esperto di tecnologia e culture digitali.
Scrive per La Stampa, HD Blog e altre testate. Vive a Berlino.
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